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Artificieri dilettanti

L’editoriale di ieri de Il Commento Politico era intitolato, “L’Italia rimandata a settembre”. Ci riferivamo soprattutto alla situazione politica ed economica del Paese.

Su due altre questioni, tra loro per certi versi connesse, riteniamo indispensabile soffermarci: il referendum costituzionale sul numero dei parlamentari e la necessità di apportare sostanziali modifiche all’attuale riparto di competenze tra Stato e Regioni.

Sul primo punto abbiamo già sottolineato, nei giorni scorsi, i delicati profili politici connessi al referendum ed oggi ospitiamo, a firma di Giancarlo Tartaglia, un primo, importante contributo volto ad illustrare le specifiche controindicazioni di una siffatta riforma.

Per ciò che attiene invece alla nostra seconda “campagna”, e cioè al rapporto Stato – Regioni, il primo quadro di riferimento lo ha fornito l’esaustivo articolo di Maurizio Troiani su Il Commento politico di due giorni fa.

Il tema del rapporto centro - periferia è terribilmente intricato e proprio per questo riteniamo indispensabile cercare di contribuire a sciogliere i nodi che lo caratterizzano. Sono nodi storici e costituzionali, ma anche legati alla competizione tra i partiti nelle varie fasi della vita della Repubblica. Un tema, quindi, che si presta facilmente alle strumentalizzazioni politiche del momento.

Partiamo dalla storia e dalla icastica ed efficacissima sintesi di Sabino Cassese sul Corriere della Sera nel dicembre 2018: “Undici delle venti regioni hanno oggi una popolazione inferiore agli abitanti di Roma. Il ritaglio territoriale degli enti regionali risale alle legioni romane ed (...) è arrivato pressoché immutato nella Costituzione”.

Il contesto storico - politico che produsse, a vent’anni di distanza dalla nascita della Costituzione, la concreta introduzione dell’ordinamento regionale è ben ricostruito in un articolo del Foglio del febbraio 2014, che riportiamo qui a fondo pagina. In quell’articolo due attuali collaboratori de Il Commento Politico sottolineavano l’improvvisazione con cui la riforma costituzionale di Matteo Renzi, poi bocciata dagli elettori, collegava la giusta esigenza di modifica del titolo V della Costituzione con la riforma del bicameralismo.

I citati articoli di Troiani e Tartaglia, infine, pur partendo da diversi punti di osservazione, giungono alla stessa conclusione: da un lato nulla vieta che si possa immaginare un Parlamento diversamente articolato, per funzioni o numero di componenti; dall’altro che, soprattutto dopo l’esperienza del coronavirus, è indispensabile rivedere il titolo V della Costituzione. Ma non così, non in modo ancora una volta superficiale e strumentale.

E invece il Paese corre di nuovo questo rischio.

L’incombere di numerose elezioni regionali dal forte valore politico rilancia la tentazione di cavalcare il populismo regionalistico. Quasi in contemporanea il Presidente del Veneto ha dichiarato che faranno parte della sua coalizione solo le forze autenticamente schierate per l’autonomia rafforzata delle Regioni e il presidente dell’Emilia Romagna si è detto favorevole a che le Regioni possano autonomamente indebitarsi. Forse sono dichiarazioni da leggere alla luce del rilievo nazionale, e non più solo locale, che questi due esponenti politici hanno acquistato in virtù di una buona gestione dell’emergenza sanitaria. Tuttavia, è certo che il clima elettorale è destinato ad infuocarsi nei prossimi mesi. Il referendum può fare da detonatore di esplosivi seminati negli anni e in gran quantità sotto l’equilibrio costituzionale.

È difficile ma non impossibile scegliere i fili per districare una matassa da sempre molto complicata. L’importante è non tagliare quelli che determinano l’esplosione.




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