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Assemblea costituente, le ragioni del NO

Viene periodicamente rilanciata l’idea di affidare la riforma della Costituzione a un'assemblea costituente appositamente eletta. Vengono addotte ragioni di vario tipo che dovrebbero motivare questa proposta. Esse vertono essenzialmente sull’affermazione che bisognerebbe riuscire a distinguere il piano delle regole da quello della lotta politica e che a tal fine sarebbe utile assegnare ad un'assise il compito della riformulazione delle regole del gioco. A questo primo argomento si aggiunge che così procedendo si coinvolgerebbero pienamente i cittadini nel processo, evitando o attenuando il rischio che poi, nel referendum successivo, tutte le proposte di riforma vengano respinte, come è avvenuto in questi anni. Queste  affermazioni sono però basate su una distinzione impossibile fra la lotta politica e la modifica delle regole del gioco. In realtà, se vi fosse un’intesa fra le forze politiche, indipendentemente dalla loro collocazione politica sulle modifiche da apportare alla Costituzione, non vi sarebbe alcun bisogno di eleggere un’apposita assemblea costituente. Se tale accordo non vi fosse, e cioè se le modifiche proposte fossero considerate come espressione delle opinioni o dei desideri di una sola delle parti presenti in Parlamento, il fatto che esse venissero discusse in un’assemblea speciale non toglierebbe loro il carattere di parte.

In altre parole, non è la sede a rendere possibile una discussione che vede la contrapposizione delle forze politiche. Vi è anche qualcuno che sostiene, come ha fatto di recente il senatore Zanda, che l’elezione di un’assemblea costituente sarebbe necessaria non per le confuse ragioni qui sopra riportate, addotte da alcuni commentatori, ma perché le norme relative alla forma di governo esulerebbero dall’ambito di applicazione dell’articolo 139 della Costituzione. A noi non risulta chiara la giustificazione di questa tesi sul piano giuridico costituzionale, ma riconosciamo che si tratta di una motivazione, se giuridicamente fondata, più consistente di quelle, appunto, che abbiamo fin qui esaminato.

Sia come sia, noi opponiamo due ragioni alla proposta di eleggere un’assemblea costituente per procedere alla modifica della Carta costituzionale. La prima è che la premessa per la scrittura di una nuova Costituzione non può che essere l’impossibilità di mantenere in essere quella precedente. Deve esservi un trauma, una cesura storica, l’accertata incompatibilità della precedente Costituzione con le condizioni nelle quali ci si trova nell’oggi. Questo valeva nel periodo 1944-'45 quando si giunse alla decisione di convocare un’assemblea costituente. Lo Statuto Albertino aveva consentito la nascita di una dittatura e l’instaurazione del regime: si ricordi che Mussolini era stato chiamato al governo nell’osservanza delle procedure con le quali veniva designato ordinariamente il presidente del Consiglio. In più, essendo stato deciso che un referendum popolare avrebbe fissato la forma di Stato scegliendo fra la monarchia e la Repubblica, era evidente che si sarebbe dovuta scrivere una carta costituzionale fondata su questa scelta preliminare ed essenziale.

Oggi, pur con tutte le riserve sul funzionamento dell’Italia repubblicana nel secondo dopoguerra che vengono avanzate in sede di valutazione storica o politica, sembra impossibile parlare di un “fallimento” dell’impianto costituzionale fissato nel 1948 con l’adozione della nostra Costituzione. Vi possono essere giudizi sulla necessità o l’opportunità di cambiare uno o un altro aspetto della Costituzione, ma noi saremmo fermamente contrari a giudicarla “superata” o “da superarsi”.

Questa è la prima ragione. Eleggere oggi un’assemblea costituente significherebbe dare una valutazione negativa sui settanta anni di vita repubblicana. Significherebbe, cioè, voler liquidare un’esperienza che, pur con le riserve che si possono fare sui singoli aspetti della nostra storia, ha assicurato all’Italia libertà e democrazia e ha garantito un miglioramento straordinario delle condizioni di vita del nostro Paese. Dunque ci sembra di scorgere nella proposta di un’assemblea costituente una delegittimazione, consapevole o peggio ancora inconsapevole, della vita italiana del secondo dopoguerra.

La seconda ragione è la seguente. Supponiamo che venga eletta con apposita legge elettorale proporzionale (ma poi quali sarebbero i dettagli di tale legge: vi sarebbe uno sbarramento o no?) un’assemblea che abbia una durata temporale prefissata per concludere i suoi lavori, chi assicura che l’assemblea sarebbe in grado di giungere a delle deliberazioni? La legge istitutiva non può offrire la garanzia che l’organo giunga a una proposta finale sulla quale si registri una maggioranza. E se tutte le proposte venissero bocciate, cosa che nessuno è in grado di escludere, specialmente se la legge proporzionale e l’attuale inesistenza di partiti politici come quelli che esistevano quando nacque la Costituzione dessero luogo a una frammentazione della rappresentanza? Si dovrebbe tornare alla Costituzione originale delegittimata dalla elezione dell’assemblea costituente, o ci si troverebbe in una condizione di assenza costituzionale prodromica a un colpo di Stato?

Non si può dimenticare che l’Assemblea costituente del 1946 nacque in un regime di concordia nazionale fra i partiti antifascisti, di unità politica. E se pure è vero che durante il periodo nel quale ebbe a lavorare la Costituente tale unità venne meno e si formarono due schieramenti politici duramente contrapposti, uno intorno alla DC l’altro intorno al PCI, lo spirito costituente che era prevalso all’inizio consentì di giungere alle conclusioni che conosciamo. Ma oggi? Chi garantisce che dalla assemblea costituente uscirebbe una costituzione? Con quale forma di governo? Con quale definizione delle autonomie locali? Con quali estensioni o restrizioni dei diritti fondamentali dei cittadini?

Eleggere un’assemblea costituente non darebbe alcuna garanzia dall’eventualità che, in assenza di deliberazioni largamente condivise o addirittura in assenza di alcuna deliberazione, il Paese precipiti nell’abisso del caos costituzionale. Certo questo è quello che forse qualcuno potrebbe augurarsi, ma nessuna forza politica democratica può accettare di imboccare una strada che potrebbe consegnare il Paese al caos. Si tenga presente che il lascito della prima Repubblica, forse il principale lascito negativo, controparte di quel successo economico di cui si è detto, è il debito pubblico. Che cosa avverrebbe al debito pubblico il giorno nel quale si rendesse evidente che le speranze di una concordia nella riscrittura della Costituzione sollevate dall’elezione di un’assemblea costituente si rivelassero infondate? 

 

Giorgio La Malfa

18 marzo 2024

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