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Brevi note sulla riduzione dei parlamentari

  • L'intervento
  • 19 giu 2020
  • Tempo di lettura: 5 min

Si svolgerà in autunno il referendum confermativo previsto dall’articolo 138 della Costituzione sul disegno di legge per la riduzione del numero dei parlamentari. In caso di esito positivo occorrerà attendere 60 giorni dalla loro entrata in vigore affinché le nuove disposizioni siano applicabili; nel frattempo il governo dovrà rideterminare i collegi elettorali.

A conclusione del procedimento i deputati passeranno da 630 a 400, più 8 nella circoscrizione estero (da 12 che erano); i senatori da 315 a 200, ai quali andranno aggiunti 4 (da 6) per l’estero e 5 a vita. In totale, quindi, si passerebbe da 968 a 617 parlamentari.

Non mi voglio qui soffermare sul merito politico della vicenda (che ha visto nel corso dell’iter costituzionale il PD votare prima ripetutamente contro e poi a favore del provvedimento al mutare delle alleanze di governo); né sulle ragioni che dichiaratamente hanno spinto alla presentazione e quindi all’approvazione delle nuove norme (i tagli ai costi della politica).

E faccio mie le critiche ad una modifica costituzionale varata al di fuori di una riflessione complessiva sui rapporti con le altre istituzioni (in primo luogo Governo ed organi delle autonomie), che rischia nella migliore delle ipotesi di riprodurre i guasti a livello di sistema di un’altra volenterosa ma anche qui parziale e mal costruita riforma: quella del 2001 sul Titolo V, in materia appunto di rapporti Stato-Regioni. Ma sappiamo, ahimè, bene la fine che hanno fatto nel nostro Paese tutte le reclamate riforme organiche della Costituzione. Mi auguro poi che i partiti minori siano pienamente consapevoli del fatto che, con un numero di parlamentari approssimativamente ridotto di un terzo, diminuiscono di molto le possibilità di una loro presenza a Camera e Senato.

Avendo trascorso buona parte della mia vita professionale in Senato, voglio solo fare alcune riflessioni iniziali su come la prevista riduzione potrebbe influenzare il modo di lavorare del Senato stesso ed il suo rapporto con gli altri organi costituzionali.

Mi contraddico subito ed alzo un po’ lo sguardo: si sono resi conto i partiti dell’attuale maggioranza, ed in particolare quello oggi maggioritario in Parlamento, come questa riforma cambi, in peggio per chi non ha un radicamento regionale, il rapporto tra i grandi elettori parlamentari e quelli di estrazione appunto regionale nelle votazioni per il nuovo Capo dello Stato? Si passa infatti da una incidenza odierna del 5,9% al 9,4% del dopo riforma: vicino al raddoppio. Lascio ai politologi l’analisi delle conseguenze di ciò sul rapporto Parlamento-Regioni e, più concretamente, su quello partiti-organi regionali.

Mi soffermo però brevemente su quanto può accadere rispetto al modo di lavorare delle Camere e in particolare del Senato, che è l’organo in cui potranno manifestarsi con maggiore evidenza gli effetti della riforma.

Le commissioni permanenti sono al Senato, come peraltro alla Camera, 14. Considerando appunto il Senato, i loro componenti vanno oggi da un massimo di 25 (come ad esempio in commissione bilancio) a un minimo di 21 (affari europei). Facendo un calcolo approssimativo, in quanto non possiamo naturalmente conoscere il numero e la consistenza dei Gruppi parlamentari della prossima legislatura, i numeri odierni dovrebbero essere ridotti di circa un terzo: si avrebbero quindi tra i 14 e i 17 membri per commissione. Salvo che, naturalmente, non si voglia procedere ad un accorpamento delle competenze delle commissioni attuali e quindi del loro numero.

La scelta della riduzione è senz’altro possibile; ma poiché a suo tempo venne ignorato il saggio insegnamento di Occam (entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem), temo che i partiti avranno difficoltà a rinunciare a qualche presidenza e si affermerà quindi il meno scolastico principio dell’entia non sunt minuenda etiamsi per necessitatem.

Una riduzione così significativa nel numero dei componenti le commissioni rischia di provocare diverse conseguenze. In primo luogo si dovrà scegliere se privilegiare il principio di rappresentatività o quello di una rigorosa proporzionalità.

Se si sceglie di assicurare a tutti i gruppi la possibilità di essere presenti come dice oggi il Regolamento “nel maggior numero possibile di commissioni”, occorrerà consentire che uno stesso senatore di un gruppo minore possa contemporaneamente far parte almeno di 4 commissioni: con quali risultati per la produttività del suo lavoro lo si può facilmente immaginare. Alla luce anche del fatto che, se si vuole adeguare alla nuova situazione la norma che consente oggi in Senato la formazione di gruppi che abbiano almeno 10 senatori, potrebbero aversi in futuro gruppi di 6 senatori da collocare in 14 commissioni.

Se, al contrario, si preferisse privilegiare un criterio di maggiore proporzionalità, richiamato per altro dall’articolo 72 della Costituzione, alcuni gruppi minori rischierebbero di non essere rappresentati.

Che conseguenze può poi determinare sull’andamento dei lavori l’avere commissioni con un numero limitato di senatori? In primo luogo un effetto todos caballeros. In una commissione di 14 senatori si continuerebbero ad avere un presidente, due vicepresidenti e due segretari: un ufficio di presidenza di 5 persone per governare gli altri 7, in una asfissiante marcatura ad uomo. A parte questo aspetto di costume, un numero minore di componenti restringe la platea dei senatori tra cui designare i relatori ai diversi provvedimenti, riducendo quindi la capacità di seguire gli stessi in modo adeguato. Più in generale, costringe la maggioranza ad una più assidua presenza, in quanto anche una singola assenza può determinare in un collegio ristretto un risultato negativo in fase di votazione.

Queste considerazioni ci portano però a riflettere sul rapporto tra il nuovo numero dei senatori e i diversi quorum previsti oggi nel Regolamento. Senza voler fare una ricognizione a tappeto, ricordo che oggi, ad esempio, la Giunta per il Regolamento è composta di 10 senatori, integrabili con altri due per assicurare una maggiore rappresentatività. Anche qui, se ci si vuole adeguare alla nuova situazione, la Giunta dovrebbe ridursi a 6/7 membri, più una eventuale aggiunta. Un organo assai ristretto che rischia di avere problemi seri di rappresentatività e quindi di legittimazione.

E non voglio entrare nel merito di tutti gli altri quorum richiamati nel Regolamento che non potranno che essere adeguati: ricordo solo, fra i tanti, i 12 senatori richiesti per la verifica del numero legale; o i 15 per la votazione nominale e i 20 per il voto segreto. Numeri difficilmente raggiungibili in futuro senza un loro adeguamento.

Voglio concludere qui, per ora, con una breve annotazione di sistema. Un numero minore di parlamentari, specialmente in commissioni chiave come la bilancio, rende più facile per minoranze agguerrite, sia di opposizione ma anche di maggioranza, l’esercizio di un forte potere di condizionamento sull’attività parlamentare. E non va quindi nel senso di quella maggiore governabilità da tutti auspicata.

Si può obiettare che anche altri ordinamenti, si pensi agli Stati Uniti, hanno una delle due Camere composta da un numero assai limitato di parlamentari: solo 100, appunto, nel Senato americano. Ma, al di là delle considerazioni sui poteri del Senato stesso e sul suo sistema di elezione, siamo in quel caso in un modello che attribuisce al Presidente poteri significativi nel campo della legislazione tali da consentirgli di interloquire da una posizione di forza anche con un Senato ostile o quantomeno “assertivo”.

Il rischio da noi è, come detto, che gruppi organizzati anche di maggioranza possano ancora più di oggi condizionare l’azione di un sistema che, con buona pace dell’ordine del giorno Perassi approvato in Assemblea Costituente, non sembra capace di “tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo ed evitare le degenerazioni del parlamentarismo”.

Antonio Malaschini

già Sottosegretario ai rapporti col Parlamento, Consigliere di Stato e Segretario Generale del Senato

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