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Energia nucleare, se ne torna a parlare

The Economist ha dedicato un editoriale del suo ultimo fascicolo al fascino discreto del nucleare. Il settimanale britannico è sempre stato favorevole all’impiego del nucleare per sostituire l’energia proveniente da combustibili fossili. È utile ricordare che il 20% dell’energia consumata nel Regno Unito proviene da tredici grandi impianti localizzati in sei punti strategici del Paese; il programma è sostituire metà della capacità produttiva di queste strutture entro il 2025 con impianti modulari di piccole dimensioni, caratteristici dell’energia nucleare della “quarta generazione”. Quindi, su questo punto, la linea di The Economist esprime in gran misura quella di governi che si sono succeduti alla guida del Paese in questi ultimi decenni.


Quale è la situazione nell’Unione europea? Utile ricordare che nella seconda metà del secolo scorso, quando si mettevano a punto i trattati di Roma, uno dei tre pilastri del processo d’integrazione europea era la cooperazione nel nucleare (con l’Euratom fortemente voluto da Jean Monnet). Oggi il quadro è molto cambiato: in effetti, l’Italia si è ritirata dal nucleare nel 1987 (dopo il disastro di Chernobyl del 1986) e la Repubblica Federale Tedesca, il cui territorio era costellato da impianti nucleari, sulla scia dell’incidente di Fukushima nel 2011, ha deciso di dismettere i propri impiantì nell’arco di dieci anni ed è improbabile che una coalizione in cui i “verdi” siano determinanti ritorni sulla decisione. Tra i 27 ci sono tre Stati “nuclearisti convinti” (Francia, Polonia, Repubblica Ceca) a cui si è all’improvviso aggiunta la Romania, che ai margini del COP26 di Glasgow ha firmato un accordo con l’americana NuScale per la messa in funzione dei sei impianti della quarta generazione.


In effetti, tanto al G20 di Roma quanto al COP26 di Glasgow, il nucleare è stato “il convitato di pietra”. Non era all’ordine del giorno delle due assise ma se ne è parlato molto sia nei corridoi sia negli incontri bilaterali. Uno stimolo viene dai grandi Paesi in via di sviluppo, come India, Indonesia e Cina, che hanno sempre evitato di prendere impegni precisi in materia di riduzione delle emissioni di energia da fossili perché ben sanno che ciò può comportare costi elevati e riduzione dei tassi di crescita. Un rallentamento dello sviluppo, a sua volta, comporta aumento degli squilibri sociali e forti tensioni interne, tali da minare i governi in carica. L’Indonesia ha un’agenzia ed un programma per lo sviluppo del nucleare. In India ci sono già 16 grandi impianti nucleari e il Paese progetta di sviluppare il comparto; si tratta, in gran misura, di reattori modellati su quelli francesi grazie ad un accordo pluriennale di cooperazione tra Parigi e New Delhi. Anche la Cina ha iniziato il proprio programma modellando i propri impianti su quelli francesi ma ora ha 22 impianti, si dichiara autosufficiente sotto il profilo tecnologico ed ha annunciato la costruzione del primo reattore alimentato al torio che dovrebbe avere una potenza grandissima di generazione di elettricità.


Al prossimo G20, che sarà presieduto dall’Indonesia e si terrà a Bali, il nucleare tornerà probabilmente di scena ad un tavolo multilaterale, anche se il Paese ospitante pur avendo un programma di sviluppo e tre stazioni sperimentali di ricerca, non dispone ancora di impianti operativi. Sarà quasi certamente uno dei temi all’ordine del G20 del 2023, che sarà presieduto dall’India che, come si è accennato, punta molto sul nucleare per soddisfare il proprio fabbisogno energetico, soprattutto in vista della transizione dal carbone.

In questa prospettiva di medio periodo sarebbe utile che l’Unione europea presenti se non una posizione almeno un indirizzo comune. Non si tratta di proporre un “ritorno al nucleare” ai Paesi che lo hanno abbandonato ma quanto meno una di fare una riflessione sui pregi e difetti dei reattori nucleari di quarta generazione (Gen IV) e dei reattori a fusione. L’analisi dei primi è promossa dal Forum Internazionale Gif (Generation IV International Forum) fondato nel 2000 dal Dipartimento dell’energia degli Stati Uniti d’America e a cui hanno aderito Argentina, Brazil, Canada, Francia, Giappone, Corea, Repubblica del Sud Africa e Regno Unito. Quanto all’analisi sui reattori a fusione, si tratta di uno dei campi di ricerca dell’ENEA.


Di fronte alla crisi energetica in corso e alle importanti decisioni sulla salvaguardia del pianeta cui gli Stati sono urgentemente chiamati, sarebbe dunque necessario riavviare su questo tema un percorso comune a livello europeo. Anche perché occorre tenere presente che i rischi eventualmente connessi al nucleare sono inevitabilmente condivisi con i Paesi vicini.


Bagehot

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Bagehot si interroga sul futuro dell’energia nucleare. Nota che fuori dall’Unione Europea si continuano a costruire impianti nucleari, a cominciare dall’India e dalla Cina, paesi che comunque sviluppano anche i loro arsenali militari nucleari e dunque non possono certo fare a meno di impianti di questo genere.

Giustamente suggerisce che l’Unione Europea dovrebbe cercare di sviluppare una posizione comune, ma riconosce che questo non è così facile.

Il Commento Politico ritiene che in molti paesi democratici che hanno interrotto le attività nucleari si potrà tornare a parlare di energia nucleare solo se sarà data una risposta molto convincente sui problemi della sicurezza.

Non dimentichiamo che il tracollo del nucleare è cominciato a Chernobyl, ma ha trovato la sua acme quando in Giappone vi è stato un incidente nucleare di cui ignoriamo ancora le effettive conseguenze.

Non ci sembra che basti parlare di reattori di quarta generazione. Bisogna che l’approccio a questi problemi sia meno sommario.

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