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Il Vangelo capitalista

Nella seconda lettera ai Tessalonicesi, San Paolo è al tempo stesso tacitiano e chiarissimo: Quando eravamo presso di voi, vi abbiamo sempre dato questa regola: chi non vuole lavorare, neppure mangi. Il messaggio è eloquente: occorre lavorare, intraprendere, fare quindi utili da impiegare anche tramite carità a favore di coloro che non possono lavorare, creare intraprese, generare quanto è necessario per sé e per la famiglia ed avere anche un sovrappiù da poter destinare ad altri meno privilegiati.

È bene ricordarlo a margine della pubblicazione del saggio di Franco Debenedetti Fare profitti - Etica dell’impresa (Marsilio, Venezia 2021), perché per decenni in Italia ha dominato una lettura dei Vangeli in chiave pauperista ed ultra-socialista che sembra voglia dare “un etica sociale” all’impresa, a prescindere dalla sua missione principale di “fare utili”. Tale lettura permea anche buona parte della cultura della Francia, ma non – sempre per restare in Europa - della Baviera.

Interessante leggere il saggio di Charles Gave, imprenditore ed economista francese che è a capo di una società di servizi finanziari con sede a Hong Kong, nonché presidente del think tank “Institut des Libertés”: Un Libéral Nommé Jesus - Parabole Èconomique, uscito in Francia nel 2005 e la cui traduzione in italiano è stata pubblicata poco più di due anni fa dall’Istituto Bruno Leoni con il titolo Gesù Economista. Ricchezza, proprietà privata, giustizia sociale. Non è un libro sulla religione, ma un saggio di economia che si basa sui Vangeli.

Secondo Gave, gli scritti di Matteo, Marco, Luca e Giovanni non sono stati adeguatamente letti e compresi dagli economisti, con il risultato che il loro significato sociale è stato in larga misura travisato. Mentre molti hanno trovato nel Nuovo Testamento una giustificazione di natura morale al socialismo e all'intervento dello Stato, Charles Gave accosta i testi sacri per mettere in risalto il messaggio di libertà e responsabilità individuale che caratterizza la predicazione di Gesù Cristo. Con la semplicità delle sue parabole, Gesù ha saputo parlare in maniera assai interessante di questioni economiche, riuscendo a piantare i semi di una riflessione che è tuttora attuale per comprendere la realtà produttiva e finanziaria dei nostri giorni. "L'unica forma di pensiero economico conforme ai Vangeli è il liberalismo!", su questa convinzione forte e “politicamente scorretta”, Charles Gave ci dà un saggio in cui analizza il testo dei Vangeli come un economista che ha fatto del liberalismo il suo credo. "Veniamo all'essenziale, cioè alla domanda che poniamo, e cioè: se i Vangeli sono il fondamento stesso della nostra civiltà, se sono veramente di tutti i tempi e di tutti i luoghi, allora devono avere qualcosa da dirci oggi su ciò che è morale in economia! Potrebbero essere stati sovrascritti e commentati da religiosi, moralisti, filosofi e non abbastanza economisti e esperti di finanza”.

Chi conosce i Paesi ai livelli più bassi dello sviluppo, e la Palestina di 2000 anni fa doveva essere molto simile a loro, sa che in un’economia di sussistenza basata su pastorizia e agricoltura itinerante, essere un falegname voleva dire essere imprenditore, tanto più che, relativamente al contesto, la propria attività ed i propri utili d’impresa erano tali da essere “censiti” dalla autorità romane di occupazione. Non c’era stigma nell’essere convocato per il censimento; c’era, anzi, orgoglio.

Si potrebbe dire che si tratta di farneticazioni di quegli iper-liberisti dell’Istituto Bruno Leoni, di cui Franco Debenedetti è Presidente. Si legga allora il saggio più noto di Luciano Pellicani, socialista non credente e nato e cresciuto in una famiglia comunista: La genesi del capitalismo e le origini della modernità (Rubettino, 2013), che è stato tradotto in tutto il mondo; poco prima di morire, Pellicani aveva licenziato la traduzione in arabo (evento rarissimo per saggio italiano). La parte centrale di un lavoro di circa 550 pagine analizza come il cristianesimo abbia archiviato il concetto di “rendita” (principalmente agraria o mineraria) della Roma tardo Repubblicana ed Imperiale per trasformarlo in quello di “profitto” od “utile”, risultante dalla combinazione di capitale, lavoro ed ingegno nel montare e gestire un’intrapresa. Il capitalismo – documenta Pellicani – ha il suo primo fiorire (e le sue prime regole) nella cristianissima Italia delle Repubbliche Comunali, definisce un sistema bancario e finanziario in quella delle Signorie ma, con la controriforma e l’Inquisizione, viene esportato nei Paesi Bassi.

Quindi “fare profitti” è etica evangelica. Come ben sa chi aiuta imprese a redigere “i bilanci sociali” che integrano quelli “civilistici”, imperniati sul conto profitti e perdite, ma non si sostituiscono ad essi.


Bagehot

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