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Il welfare dopo la pandemia

Meno di un mese fa, l’ISTAT ci ha detto che le stime preliminari del 2020 indicano valori dell’incidenza di povertà assoluta in crescita sia in termini familiari (da 6,4% del 2019 al 7,7%, +335mila), con oltre 2 milioni di famiglie, sia in termini di individui (dal 7,7% al 9,4%, oltre 1 milione in più) che si attestano a 5,6 milioni. Un paio di giorni fa ci ha avvertito che: da febbraio 2020 a febbraio 2021 le persone che lavorano in Italia sono scese di 945mila, da 23.142.000 a 22.197.000. La contrazione è in parte un effetto statistico. A livello europeo, dal primo gennaio 2021 è cambiata la metodologia di rilevazione delle forze lavoro: ora i lavoratori assenti per più di tre mesi non vengono più considerati occupati mentre prima lo erano, se percepivano una retribuzione di almeno il 50%. In parole povere, mentre fino all’anno scorso i lavoratori in cassa integrazione venivano conteggiati tra gli occupati, dal primo gennaio 2021 non lo sono più, finendo o tra i disoccupati, se stanno cercando attivamente un lavoro, o tra gli inattivi. Con la nuova metodologia, infatti l’aumento degli inattivi in un anno è pari a 717mila. Al di là degli aspetti tecnico-statistici, questi dati dimostrano che il malessere sociale creato dalla pandemia, e che a volte sfocia in rabbia, ha una base che deve impensierire seriamente il Governo e soprattutto il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali. Quali che siano i rimedi di breve periodo per tamponare una situazione che sta diventando politicamente difficile da gestire, occorre pensare a come riformare il welfare. Le povertà ed il mondo del lavoro del dopo pandemia saranno differenti da quelli che erano negli anni precedenti il Covid-19 e bisognerà attrezzarsi con strumenti nuovi e riformare quelli esistenti. All’inizio degli Anni Novanta del secolo scorso, due ricerche nate all’Istituto universitario europeo di Fiesole, classificarono in vario modo i sistemi di welfare nei principali Paesi industrializzati. Gosta Esping-Andersen identificò tre modelli: a) un welfare orientato al mercato nei Paesi anglosassoni in cui lo Stato ha un ruolo residuale di protezione dei più deboli; b) un welfare sostanzialmente basato sulla famiglia in Europa continentale in cui lo Stato ha una funzione integrativa rispetto all’unità familiare; c) un welfare universalistico visto come funzione principale dello Stato nei Paesi scandinavi. In parallelo, un lavoro di Maurizio Ferrera definiva una tassonomia basata su quattro tipologie: a) un welfare universalistico ispirato a Beveridge in Gran Bretagna (a livelli bassi di spettanze) e in Scandinavia (a livelli, invece, alti), b) un welfare “particolaristico” per categorie sociali ispirato al sistema assicurativo di Bismarck prevalentemente in Europa continentale; b) un welfare “corporativo” tipico della Penisola Iberica. L’Italia aveva un modello a sé che Ferrera definiva “particolaristico-clientelare” in quanto, pur basato su un sistema di assicurazioni sociali per categoria, rapporti extra-istituzionali influivano nel trasformare spettanze in prestazioni, quanto meno per incidere sull’elemento tempo. Da allora, i vari modelli sono cambiati e si sono, in gran misura, fusi. In Italia, ad esempio, due aspetti fondamentali del welfare – la sanità e la previdenza – sono diventati essenzialmente universalistici, pur se la gestione della prima è affidata alle Regioni ed alla Province autonome e la seconda è imperniata sull’Inps (dove coesistono differenti “regimi”) ed ad una mezza dozzina di istituti categoriali. L’assistenza è frammentata tra una fin troppo ampia varietà di forme, alcune altamente centralizzate (come il “reddito di cittadinanza”) ed altre molto decentrate a livello dei comuni. Le politiche per il lavoro – che avranno un ruolo centrale quando si uscirà dalla pandemia – sono anche esse frammentate e caratterizzate da sovrapposizioni ed inefficienze. Il carattere “clientelare”, purtroppo, permane come mostrano le procure a proposito del “reddito di cittadinanza” e come suggeriscono inchieste giornalistiche a proposito delle vaccinazioni. La pandemia ha mostrato le contraddizioni di quasi tutti i sistemi di welfare, come documenta un’analisi dell’Economist Intelligence Unit. In sedi come l’Ocse si dovrà promuovere un riassetto. A ragione della nostra struttura demografica e dei nostri vincoli di finanza pubblica, i problemi dell’Italia nell’assicurare un adeguato e sostenibile welfare sono più gravi di quelli di gran parte degli altri Paesi industrializzati ad alto reddito medio. D’intesa con le Regioni e le Province autonome, si potrebbero fondere, con economia di scala e guadagni di efficienza, vari istituti oggi frammentati: un esempio eloquente è quello del “reddito minimo di inserimento”, del "reddito di cittadinanza”, del “reddito di emergenza” e del “reddito di emersione” - quattro istituti che potrebbero essere unificati. Inoltre, l’esperienza internazionale e la stessa casistica italiana indicano che le misure di sollievo dalla povertà non si gestiscono bene in modo centralizzato e sulla base di modulistica ed autodichiarazioni, da verificare spesso dopo avere elargito l’assistenza. Ci vuole un alto grado di sussidiarietà: probabilmente, è a livello dei “servizi sociali” dei comuni che si possono meglio individuare ed assistere i veri poveri. Ciò comporterebbe anche una chiara separazione tra assistenza e previdenza nei conti Inps, attualmente effettuata – come rileva da anni il Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali – solo parzialmente, con l’effetto di falsare la posizione dell’Italia. Si dovrebbe, poi, distinguere nettamente tra politiche, programmi e misure di sollievo e fuoruscita dalla povertà, da un lato, e politiche dell’occupazione e dell’impiego, dall’altro. Sono proprio i dati sui pochissimi beneficiari del “reddito di cittadinanza” che trovano lavoro a dimostrarlo ed a suscitare in materia seri interrogativi, anche sulla coesistenza non sempre pacifica tra l’Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro (ANPAL) e le Regioni e le Province Autonome a cui fanno capo i Centri per l’Impiego. Infine, ma si è ben al di fuori delle competenze del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, ci si deve chiedere se l’attuale suddivisione tra Stato e Regioni e Province autonome della politica, dei programmi e delle misure in materia di sanità sia ottimale. Il Commento Politico ha già espresso dubbi in materia.

Bagehot


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