Si nota un'attenzione spasmodica al problema degli intralci burocratici che rallentano il cammino delle decisioni pubbliche. Il Presidente del Consiglio Conte ha annunciato un decreto sulle semplificazioni. I giornali ospitano interventi allarmati di osservatori e politici, come quello dell’ex-ministro dell’Economia Giovanni Tria pubblicato ieri sul Sole 24 Ore.
E’ evidente il timore che gli sforzi per trovare e stanziare le risorse destinate al rilancio dell'economia italiana si infrangano contro la difficoltà di far partire concretamente le spese.
Non è da sottovalutare l’importanza di questi problemi. Sappiamo che i ritardi dell’Italia nell'utilizzo dei fondi europei hanno contribuito ad alimentare una serie di giudizi negativi sul nostro Paese. Pensiamo, quindi, che l’allarme da più parti lanciato sia utile e ci auguriamo che porti a interventi efficaci di semplificazione delle procedure.
Detto questo, però, osserviamo che nel momento nel quale si immagina un vasto programma di investimenti alimentato da fondi europei e magari integrato con ulteriori fondi tratti dal nostro bilancio, non vi è soltanto il problema della rapidità delle procedure di spesa. Vi è un altro problema, preliminare o quantomeno contestuale rispetto a quello delle procedure di spesa, ed è quello degli indirizzi di spesa, cioè della scelta concreta dei settori verso i quali indirizzare le risorse, della ripartizione delle risorse fra i vari settori e della scelta degli investimenti specifici in ciascuno dei settori.
Su questo punto è necessario un chiarimento. Un piano di rilancio dell’economia italiana va pensato organicamente partendo da una analisi approfondita della situazione del Paese, delle difficoltà attraversate negli ultimi anni, delle potenzialità del nostro sviluppo. Tutto questo non ha nulla a che fare con il finanziamento dei programmi di investimento che i vari dicasteri di spesa, Regioni e Comuni, hanno in serbo e che nel corso del tempo essi hanno cercato di far partire: ci sono presso le varie amministrazioni lunghi elenchi di richieste relative ad una miriade di esigenze - di solito consegnate al momento della formazione dei bilanci e spesso ripetute proforma - presentate nella prospettiva che la maglia delle restrizioni degli ultimi anni venga allargata grazie a politiche più espansive.
Sarebbe l'ultimo degli errori se il Recovery Fund dovesse servire a finanziare più largamente questi programmi, spesso vecchi e comunque scoordinati fra loro. Il Recovery Fund dovrà essere invece utilizzato per finanziare una serie di interventi ben studiati, coordinati e mirati alla soluzione di alcuni dei tradizionali problemi italiani, come la minore produttività, l'insufficienza di molte opere pubbliche e così via.
In altre parole, la programmazione degli interventi da finanziare con gli auspicati fondi europei è un esercizio da impostare ex novo, innanzitutto individuando una sede responsabile di cui va specificata la collocazione in seno al Governo. Va, inoltre, stabilito come questa sede si rapporterà con i vari ministeri e con le forze economiche e sociali e, materia ancora più importante, come si rapporterà con l'Europa da cui buona parte dei fondi verranno.
Può questo sforzo essere affidato a uno dei ministeri esistenti, aggravati come essi sono dai loro compiti correnti? Deve questo sforzo riguardare solo la programmazione degli investimenti pubblici o affrontare anche il tema degli incentivi da offrire agli investimenti privati?
A chi, in seno al Governo, avesse desiderio di approfondire questi aspetti, suggerisco la lettura del capitolo titolato La Francia si modernizza, che Jean Monnet nelle sue Memorie dedica alla sua esperienza come “Commissario del Piano“ nell'immediato secondo dopoguerra. Sono pagine che appaiono assolutamente attuali per chi si trovi ad affrontare i problemi dei ritardi e delle fragilità dell’economia italiana in questa che a noi sembra l’ultima occasione per riuscire a modernizzare il nostro Paese.
Giorgio La Malfa
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