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Que reste-t-il?

Nei primi due anni della legislatura la Presidente del Consiglio, on. Giorgia Meloni, è stata la protagonista unica e largamente indiscussa della vita italiana. Sul piano politico i suoi due alleati, all’indomani di un esito elettorale modesto, sembravano essenzialmente destinati a un inesorabile declino, mentre l’opposizione appariva fragile e sostanzialmente priva di una leadership unificante. Non vi erano quindi difficoltà nel portare avanti l’agenda ambiziosa che l’on. Meloni aveva disegnato per sé e per il suo governo. All’interno una vasta riforma delle istituzioni,  del sistema delle autonomie, della giustizia e soprattutto della forma di governo con la innovazione dell’elezione diretta del Presidente del Consiglio collegata ad un sistema elettorale maggioritario. Sul piano internazionale l’affermazione, nell’ambito della tradizionale collocazione dell’Italia nella NATO e nell’Unione Europea, di un nuovo protagonismo italiano.

Che cosa rimane di tutto questo a due anni di distanza dall’inizio trionfale dell’esperienza di Governo dell’on. Meloni? Que reste-t-il de ces beaux jours? - come  cantava Charles Trenet nei suoi anni migliori. Anche se le mura di Palazzo Chigi tendono a attenuare fortemente il senso della realtà dei Presidenti del Consiglio, l’impressione è che il bilancio non possa non apparire desolante. Lo conferma la frase fatta circolare ieri in vista del vertice fra le forze di maggioranza previsto per oggi. “Non mi farò logorare” è l’affermazione tipica di tutti i Presidenti del Consiglio italiani alle prese con i contrasti e il protagonismo dei partiti della coalizione. Normalmente essa era accompagnata dalla minaccia dello scioglimento anticipato delle Camere che per ora, almeno, sembra escluso dall’on. Meloni.

In realtà, sul piano politico, i due alleati di Fratelli d’Italia, sono riusciti ad evitare quel declino che sembrava inarrestabile  e danno segni di un protagonismo conflittuale che ha ormai riportato l’on. Meloni alla tradizionale funzione dei Presidenti del Consiglio italiani del dopoguerra: mediatori in perenne difficoltà fra le posizioni divergenti della coalizione. Quanto all’opposizione, le elezioni europee e le elezioni amministrative hanno indicato una sostanziale ripresa; il successo nella raccolta delle firme per il referendum sulle autonomie e le previsioni per le imminenti elezioni regionali sono la conferma di una situazion molto mutata rispetto a due anni fa.

Ma quello che è più grave è il bilancio dell’azione del governo, oggi ed in prospettiva nei due campi che avevano formato oggetto dell’impostazione originaria.

È in crisi il disegno di riassetto istituzionale. Dopo avere ceduto alle pressioni della Lega di approvare prima delle elezioni europee il disegno di legge Calderoli sull’autonomia differenziata, oggi l’on. Meloni deve prendere atto che l’opposizione a questa legge trova un vasto consenso nel Paese ed anche in seno alla stessa maggioranza. Non è solo Forza Italia, ma anche una rilevante parte dei quadri meridionali di Fratelli d’Italia a considerare negativamente la legge Calderoli. Soprattutto non può non preoccuparla la netta presa di posizione della Chiesa. Il governo sa che, se la Corte Costituzionale darà il via al referendum, esso vedrà prevalere largamente i NO. Anche se dovesse mancare il traguardo del quorum, la condanna per una legge che divide l’Italia è destinata ad incidere sugli esiti elettorali futuri.

Gli errori compiuti in materia di autonomie si rifletteranno anche sul cammino della riforma in senso presidenziale della Repubblica. Non si sa quando riprenderà l’esame della riforma da parte delle Camere, anche perché l’on. Meloni ormai capisce che in un eventuale referendum confermativo, il suo partito e lei stessa saranno lasciati soli dagli alleati a fronteggiare un’opposizione unita e compatta. Il rischio di un esito come quello che travolse Matteo Renzi è del tutto evidente.

Ed infine la politica estera: le prese di posizione del ministro Crosetto a proposito dell’Ucraina, che restano inspiegate e che hanno visto l’imbarazzato silenzio della Presidente del Consiglio, hanno di molto attenuato il profilo dell’Italia sul piano dei rapporti con la NATO e con gli Stati Uniti, mentre è fallito disegno di fare del gruppo conservatore nel Parlamento Europeo un elemento condizionante degli equilibri postelettorali in seno all’Unione Europea. Tale è stata la condanna all’irrilevanza dei conservatori europei che l’on. Meloni ha  finito per dover scegliere il voto contrario alla Presidente von der Leyen alla cui benevolenza deve ora affidarsi per ottenere un posto di qualche rilievo in seno alla Commissione. Le stesse parole pronunciate ieri dall’on. Weber sul peso oggettivo, non dell’on. Meloni ma dell’Italia come paese fondatore della UE, non possono avere fatto piacere a palazzo Chigi dove si sarebbe ambito a vedere riconosciuto un ruolo alla Presidente del Consiglio in quanto tale.

Finite le ambizioni riformatrici della Costituzione, caduto il sogno di inserirsi ai vertici delle politiche europee, il Governo è costretto ad affrontare la banalità della legge di bilancio che non lascerà spazio ai sogni. La Presidente del Consiglio ha probabilmente consapevolezza di tutto questo. Senza qualcosa che cambi la situazione, il senso dell’evoluzione della situazione politica sembra segnato. Noi abbiamo un sospetto: che la partenza del ministro Fitto verso Bruxelles non sia soltanto funzionale ad ottenere un buon o almeno un passabile incarico commissariale. E se fosse un modo per trasferire nelle mani della titolare di palazzo Chigi il controllo della spesa dei fondi del PNRR? Se cioè, persi per strada o accantonati gli altri sogni di gloria, rimanga ancora la speranza di poter rabbonire o punire degli alleati riottosi finanziando i progetti ad essi cari o negando loro i fondi e nello stesso tempo trattare con le imprese e i territori sulla base del PNRR?

A noi sembra un gioco rischioso, sia perché la gestione dei fondi PNRR è comunque macchinosa e complessa, sia perché gli alleati potrebbero chiedere di spacchettare, una volta partito Fitto, il controllo dei fondi. Ma in fondo che altro resta alla Presidente del Consiglio dei sogni con cui si  era aperta la legislatura se non la scommessa di dare a palazzo Chigi una leva monetaria da utilizzare per consolidare un potere ormai traballante?





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