Se c’è una cosa che ha funzionato male e che ha dato risultati pessimi in questi mesi di pandemia è stato senza alcun dubbio il conflitto di competenze tra lo Stato e le Regioni, tra il governo e le giunte regionali, a dimostrazione di quanto sia stata insana e devastante la modifica del titolo V della Costituzione introdotta, non per rendere più efficace l’impianto costituzionale, bensì per fronteggiare un’esigenza politica contingente: quella di frenare la crescita di consensi alla Lega. Con una pessima tattica politica si pensava che aumentando i poteri delle Regioni e alterando l’impianto degli equilibri costituzionali si sarebbe tolta l’erba sotto i piedi della Lega. Come si è visto, così non è stato, anzi, l’abnorme aumento dei poteri regionali ha finito per favorire l’esasperazione leghista.
La morale che emerge da questa constatazione è che porre mano alla Carta Costituzionale è una questione molto delicata, che non può essere affrontata come strumento di lotta politica, ma che deve essere perseguita con il confronto e il consenso di tutte le forze politiche, avendo ben presente la complessiva architettura costituzionale, che i padri costituenti hanno voluto costruire per garantire il corretto funzionamento di una democrazia parlamentare, che si regge sulla divisione e sull’equilibrio dei poteri.
Alla luce di questa considerazione appare di tutta evidenza la fallacità della riforma costituzionale voluta da Matteo Renzi, che l’aveva impostata in termini di scelta plebiscitaria sulla sua linea politica. L’abolizione delle province, così come l’abolizione del Cnel e la riduzione del numero dei parlamentari, rispondevano soltanto a questo scopo: rafforzare il potere dell’allora capo dell’esecutivo. Giustamente, gli italiani hanno risposto a quello che Renzi aveva chiesto. Hanno detto no al plebiscito.
Quanto sia ponderato il testo costituzionale del 1948 lo dimostra proprio in questi giorni in altre circostanze. Sono in corso a Villa Pamphili gli Stati Generali proclamati da Giuseppe Conte, one man show, per festeggiare la solidità del suo potere personale conquistato in assenza della politica. Quale è lo scopo proclamato degli Stati Generali? Ascoltare le forze produttive e sociali del Paese prima di individuare le misure necessarie per farlo ripartire dopo la pandemia. Ma per questo scopo c’era bisogno degli Stati Generali che, peraltro, la storia insegna, portano male? Non era il caso di applicare invece la Costituzione? L’articolo 99 della nostra Costituzione prevede tra gli organismi costituzionali il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, salvatosi referendariamente dalla ghigliottina di Renzi. Ebbene, l’articolo 99 stabilisce che il Cnel è composto da esperti e dai rappresentanti di tutte le categorie produttive in misura proporzionale alla loro importanza numerica e qualitativa ed è l’organo di consulenza delle Camere e del governo e può contribuire alla elaborazione della legislazione economica e sociale. Non era forse il caso, proprio in questa occasione, chiedere al Cnel, dove siedono i rappresentanti di tutte le categorie produttive, di fornire al governo e al Parlamento la valutazione complessiva su cosa fare di chi lavora e produce?
Anche in questo caso c’è stata una fuoriuscita dalla Costituzione per motivi puramente contingenti e propagandistici.
Sarebbe opportuno che i cittadini tenessero ben presente questi argomenti soprattutto se, come pare, saranno chiamati alle urne il prossimo mese di settembre per esprimere il loro giudizio su un’ennesima riforma costituzionale voluta dal Movimento 5Stelle e imposta al Partito Democratico come condizione per il suo ingresso al governo. Questa riforma costituzionale, che riduce drasticamente il numero dei deputati e dei senatori, altera sul piano tecnico il principio di rappresentatività che il Parlamento nel suo complesso deve avere nel rapporto con le territorialità che esso deve rappresentare. Ma l’aspetto più devastante di questa riforma è il suo tentativo di cavalcare la tigre dell’antipolitica (“Roma ladrona”) e il suo scopo perverso di delegittimare il Parlamento e con esso la democrazia rappresentativa, per aprire la via alla democrazia diretta. Una formula senza alcun dubbio affascinante che dovrebbe consentire ad ogni cittadino di esprimere sempre e su tutto il proprio parere decisionale. Ma la storia ci insegna che si tratta di una misera utopia. Le strade dell’inferno sono sempre lastricate di buone intenzioni. La democrazia diretta si risolve sempre nel rapporto diretto tra il capo che comanda e un volgo che applaude, senza alcuna intermediazione. Ecco perché occorre fermare questa deriva pericolosa e salvaguardare l’assetto costituzionale, votando no alla riduzione del numero dei parlamentari.
Giancarlo Tartaglia
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