Lettera da Washington
Nella primavera del 1975 l’America cercava la sua strada dopo il turbolento periodo della presidenza di Nixon ed era avviata - sotto la guida di Ford - a fare pace con sé stessa, archiviando il lungo, dilaniante periodo del conflitto del Vietnam.
Era stata una guerra necessaria, ci avevano spiegato, perché il regime di Saigon era l’ostacolo che avrebbe impedito il dilagare del comunismo in Asia e nel mondo: caduto il Vietnam, chi avrebbe salvato il resto dell’Indocina, la Tailandia, la Birmania, e poi ancora altri in sequenza ad infinitum - come sosteneva la celebre “teoria del domino”?
Ufficialmente, la fine era cominciata due anni prima, nel 1973, con l’accordo che disimpegnava gli Stati Uniti dal suo asimmetrico corpo a corpo con Hanoi, ma manteneva una copertura per il regime di Saigon. L’intesa con Hanoi prevedeva da ultimo una soluzione politica che garantisse l’unità del paese, attraverso una consultazione popolare (proprio come si era stabilito nella sfortunata pace precedente, quella di Ginevra del 1954 dopo la caduta di Dien Bien Phu). L’accordo venne applicato dagli Stati Uniti, che ritirarono le loro forze, ma non fu mai ratificato dal Senato, e venne sostanzialmente ignorato dalle parti in causa. Così la guerra proseguì anche senza i Marines, finché si giunse all’attacco finale sulla capitale. Saigon cadde alle prime ore del 30 aprile del 1975, fra scene drammatiche, con gli ultimi americani evacuati in elicotteri (che le batterie nordiste avevano ordini di non attaccare), mentre i vietnamiti che fino all’ultimo avevano sostenuto il governo del sud cercavano disperatamente di aggiungersi all’esodo.
Il nuovo Vietnam unito da Ho Chi Minh e dal Generale Giap andò poi sorprendentemente ad annientare il regime dei Khmer Rouge in Cambogia, con buona pace della “domino theory”, e a sconfiggere la Cina che avrebbe voluto ridimensionare il governo di Hanoi.
Oggi a Ho Chi Minh, che nella pratica si chiama ancora Saigon anche dopo cinquant’anni, esiste un museo di questa guerra. È sorprendentemente privo di trionfalismo e lascia ai documenti e a un po’ di materiale militare abbandonato l’incarico di parlare per i vincitori; un suo merito è che raccoglie la voce non solo dei combattenti, ma anche degli altri protagonisti. Una sala (unica in questo genere di musei) raccoglie le testimonianze relative al lavoro delle migliaia di giornalisti che hanno documentato per lunghi anni da ambo i lati, giorno per giorno, la lunga guerra dell’Indocina. È un tributo meritato, come si vede dalla lista dei corrispondenti e dei fotografi che hanno pagato con la vita la loro scelta di essere presenti.
Chi visita oggi Saigon resta colpito dall’atteggiamento sereno dei vietnamiti nei confronti di questi stranieri, che hanno pesato così duramente nella loro guerra di unificazione nazionale; solo uno dei tanti episodi nel passato travagliato della nazione, dicono al viaggiatore occidentale, un passato che li ha visti combattere francesi, giapponesi, khmer, americani e infine cinesi, sempre vittoriosamente.
Non si può fare a meno di pensare che a vincere non sia stato il Nord, né il comunismo, ma il Vietnam, e il suo popolo.
Oggi, quelli che restano di quei combattenti stanno scomparendo un po’ alla volta, con lo scorrere degli anni. Altre guerre da allora hanno assorbito la nostra attenzione, e Saigon appare esotica e lontana.
Nel 1975 Saigon invece era ancora vicina. In Asia, la Corea e il Vietnam avevano messo alla prova la potenza militare americana, che non poggiava come oggi esclusivamente su un apparato professionale, ma era costruita sul servizio di leva. Come forza combattente reggeva, come si era già visto nella guerra mondiale, ma le ripercussioni sulla vita della nazione non erano trascurabili, e non per ragioni materiali: la vita quotidiana proseguiva come se la guerra in Asia non esistesse. Non c’era una economia di guerra, l’America poteva combattere e al tempo stesso mantenere i negozi traboccanti dei beni della vita moderna - certo non il caso dell’Europa degli anni ’40. Intanto però i coscritti partivano, e combattevano spesso coraggiosamente, ma malvolentieri. La sala dei giornalisti, al museo di Saigon, è infatti un omaggio al ruolo della sorda opposizione interna che i corrispondenti della stampa occidentale documentavano col loro insistente raffronto quotidiano tra la cronaca di cui erano testimoni e la propaganda dei governi.
Dopo la rinuncia di Johnson a ripresentarsi alle urne nel 1968, solo un uomo della destra, come Nixon, poteva avere l’autorità per porre fine allo scontro tra americani che dilaniava il paese; il primo passo era porre fine alla guerra asiatica. Eletto nel 1968, al massimo della tensione, decise di negoziare l’uscita degli Stati Uniti dal conflitto e cercò sostegno nel campo avverso avvicinandosi alla Cina di Mao e di Chu En Lai. Ancora nel 1970 immense dimostrazioni di protesta sommergevano la capitale, accomunando studenti e veterani. Una volta abolita la leva, i tentativi di ripetere queste adunate di popolo fallirono miseramente. Nixon fu rieletto nel 1972 con i voti di quarantanove dei cinquanta stati, uno tsunami; si scrivevano analisi politiche sulla “presidenza imperiale” che accentrava sempre di più il potere politico nella Casa Bianca, e nessuno fece caso, quell’estate, alla strana effrazione compiuta a danno del partito Democratico nei suoi uffici del prestigioso complesso del Watergate, sulla riva del Potomac.
Tre anni dopo, nel ’75, per gli americani la guerra era il passato remoto. Nessuno più partiva per il fronte. Nixon non era più presidente.
Oggi - dopo tante altre avventure - il tema è l’Afghanistan. Proprio da poco, per gli americani questo conflitto ha superato il record di durata detenuto dalla guerra del Vietnam con 19 anni e 5 mesi, e si avvia verso i 20 anni - ma la smobilitazione è cominciata, per coincidenza proprio nei giorni dell’anniversario della caduta di Saigon. È in atto il rimpatrio delle truppe alleate; questa, a differenza del Vietnam, era una guerra della NATO.
Ma nel chiudere la triste contabilità di questo lungo conflitto, non si riesce a escludere dalla mente l’immagine di Saigon invasa e dell’esodo disperato, sotto gli occhi degli ultimi americani, lottando per salire a bordo degli ultimi elicotteri sul tetto dell’ambasciata. Presumibilmente lo strazio del 1975 non sarebbe ripetibile; le portaerei sono lontane.
Ma lasciando da parte i fantasmi di allora, alcuni fattori sono oggi diversi. Non ci sono due stati, ma due fazioni che si oppongono per la stessa nazione; entrambe hanno beneficiato per vent’anni di sostegno militare e finanziario dell’estero, e continueranno senza dubbio a riceverlo. Avrà una chance il governo di Kabul? La NATO ricorda, giustamente, che alla fine spetta al popolo afghano di decidere il proprio futuro, e nessuno può sostituirsi; gli è stata offerta una possibilità di farlo - che uso sapranno farne, lo sapremo a tempo debito. Già oggi, all’inizio dei rimpatri, non restano nel paese che circa 10.000 militari dell’alleanza, occupati a preparare gli zaini, e la sicurezza poggia sulle spalle dei 200.000 soldati del governo, in un territorio delle dimensioni della Francia.
E dopo? A Saigon si compra ancora la baguette dal panettiere, si trova ancora chi parla francese, e si ha l’impressione che i vietnamiti nel tempo abbiano metabolizzato quanto gradivano dei loro occupanti, sbarazzandosi del resto. Ma a Kabul cosa resterà delle buone intenzioni dell’Occidente, quando anche lì il conflitto sarà finito per sempre?
La partita di domino, così limpida - noi e loro, democrazia e comunismo - è stata ormai dimenticata. In ossequio a quella regola, in questo conflitto l’occidente aveva armato i nemici del’URSS di Brezhnev, solo per poi prenderne il posto. Non sarà per nessuno una guerra vinta, né per chi parte, né per chi resta; sarà una guerra fino all’ultimo ambigua, come possono essere i conflitti asimmetrici, in cui nemmeno chi rimane padrone del campo può mai essere sicuro di aver vinto.
Invece, si vede benissimo chi avrà perso. Il costo umano per gli afghani è vasto. Si dice 300.000 morti dal 2001. Alla fase russa, durata la metà della fase NATO, sono attribuiti tra 600.000 e due milioni di morti; le stime divergono. Per gli afghani, la guerra è durata 43 anni, se si parte dal 1978 con l’intervento sovietico. Intere generazioni saranno cresciute immaginando una vita che invece sarà loro negata.
Franklin
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