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Segnali di burrasca

Per quanti sforzi faccia l’on. Meloni di riaffermare, come Presidente del Consiglio in pectore, la propria supremazia rispetto ai partiti della coalizione e nell’avocare a sé la definizione delle linee politiche di fondo del futuro esecutivo, sta emergendo con chiarezza che siamo di fronte a una situazione paradossale: l’esito elettorale assegna una consistente maggioranza di seggi in Parlamento a una coalizione che si è presentata unita alle elezioni, ma che non aveva elaborato, non disponeva e non dispone di un programma condiviso di governo.


Questo è emerso con evidenza in questi giorni sul terreno della politica estera, ma è chiaro che distanze significative fra i partiti del centrodestra esistono anche per quanto riguarda la politica economica, sia sull'impostazione del bilancio dello Stato, sia sulla riforma fiscale. Riteniamo, inoltre, che possano emergere forti differenze anche circa il PNRR, sia per la parte delle riforme, sia per la specifica destinazione dei fondi.


Che vi fossero divergenze fra i partiti della coalizione di centrodestra era palese già nel corso della legislatura precedente ed emergeva chiaramente dal fatto che, nel corso del quinquennio, i tre partiti avevano avuto una posizione comune solo nella fase del secondo governo Conte. Prima di esso, due dei tre partiti si collocavano all'opposizione ed uno in maggioranza. Nella fase del governo Draghi, uno si collocava all'opposizione e due in maggioranza. È paradossale, ma non sorprendente, che dei tre partiti che oggi formano la maggioranza, il partito che si collocava all'opposizione del governo Draghi appaia deciso ad operare in continuità con questo governo, mentre i due partiti che ne facevano parte manifestano posizioni lontane da esso, sia in materia di politica estera che in materia economica.


Nella fretta di utilizzare il vantaggio offerto dalla componente maggioritaria della legge elettorale in un momento in cui il centrosinistra era diviso in tre componenti incapaci di raggiungere un accordo politico o un’intesa elettorale, il centrodestra ha evitato di approfondire le questioni. Ha dichiarato di avere elaborato un comune programma, ma in realtà aveva semplicemente deciso di evitare qualunque discussione che avrebbe potuto incrinare l’alleanza. Le conseguenze emergono ora.


Nella vicina Germania, i partiti che formano una coalizione dedicano il tempo necessario a definire in dettaglio il programma comune prima di costituire il governo. Forse il centrodestra dovrebbe avere il coraggio di avviare questo chiarimento prima di recarsi dal Capo dello Stato per le consultazioni. Non avverrà, pensiamo. Si capisce che l’on. Meloni pensa che le convenga procedere il più rapidamente possibile alla costituzione dell’esecutivo nella convinzione che, una volta formato, diverrebbe più difficile per i partiti che lo compongono prendere platealmente le distanze dal governo di cui fanno parte. Per procedere in questo modo, di fronte a prese di posizione di esponenti degli altri partiti che indicano differenze sostanziali si tende a dire che si tratta di esternazioni personali, prive dunque di implicazioni e di conseguenze.


La nostra impressione è che il calcolo dell’on. Meloni possa essere sbagliato. È illusoria l’idea che una volta avviato il governo ella abbia l’autorità, in quanto presidente del Consiglio, di dettare la linea. Quello che nasce è un governo di coalizione ed il presidente del Consiglio in Italia è un primus inter pares, non un primo ministro. Deve e dovrà trovare un punto di equilibrio fra le posizioni della sua coalizione. Ciò vale per le grandi questioni, dalla politica estera all'economia, ma anche per le questioni quotidiane di cui è fatta l’azione del governo. È vero che un partito di maggioranza che incrina la compattezza del governo di cui fa parte paga un prezzo elevato per questa indisciplina, ma è anche vero che l’emergere di divisioni in senso al governo ricadono anche sull’autorevolezza del presidente del Consiglio. Dopo un po', l’opinione pubblica può cominciare a chiedersi se la mancanza di disciplina sia colpa dei partiti o della scarsa autorevolezza del primo ministro. La lunga storia della prima Repubblica può dare molti ammaestramenti in proposito.


Da questo punto di vista, affidare gli Esteri e l’Economia a due degne persone che sono in sintonia con la presidente del Consiglio ma appartengono a due partiti che, proprio sulla politica estera e sull'economia, evidenziano quotidianamente posizioni distanti da quelle della presidente del Consiglio è evidentemente un elemento di complicazione, perché se questi due ministri prenderanno le distanze dai rispettivi partiti aumenterà il malessere politico nella coalizione, se invece cercheranno in qualche modo di rappresentare anche i loro partiti, renderanno più complessa la situazione nel governo.

Sospinti dalle critiche anche di molti osservatori politici contro i governi tecnici o di unità nazionale, gli italiani hanno pensato che fosse venuto il momento di tornare a governi espressione di una chiara divisione politica. Non saremo certo noi a suggerire una supplemento di riflessione per il centrodestra prima di formare il governo. Ma forse il partito dell’on. Meloni dovrebbe riflettere se vi sono oggi le condizioni per un’azione di governo efficace. Perché, se domani la realtà dovesse mostrarsi diversa, non potrebbe trovare delle giustificazioni facili per il proprio eventuale insuccesso.

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