L’urgente riforma del Titolo V della Costituzione risulta essere per Il Commento Politico uno dei temi dirimenti su cui riattivare l’attenzione anche alla luce di quanto emerso nelle prime fasi dell’emergenza coronavirus. Con il seguente contributo s’intende quindi aprire una riflessione ed un confronto aperto a successivi apporti.
Il periodo di lockdown a causa della pandemia da coronavirus, oltre ad altri aspetti di carattere sanitario e non, ha messo in luce la stessa fragilità e confusione dell’assetto istituzionale dello Stato, con particolare riferimento al rapporto fra quest’ultimo, le Regioni e le Province autonome.
Come noto tale rapporto è regolato dal Titolo V della Costituzione ed in particolare dall’art. 117 che definisce le materie di competenza esclusiva dello Stato, le materie oggetto di legislazione concorrente fra Stato, Regioni e Province autonome e quelle, infine, di competenza esclusiva delle Regioni e delle Province autonome che ricomprendono tutte le materie non esplicitate nei precedenti due campi di competenza. Il link in calce specifica nel dettaglio la ripartizione delle competenze fra i vari livelli istituzionali.
Tale assetto è il frutto della riforma avvenuta con la Legge Costituzionale 3/2001 approvata in coda alla XIII Legislatura su iniziativa del centrosinistra e confermata dal referendum del 7 ottobre 2001.
Quella improvvida riforma voleva essere una risposta alle spinte devoluzionistiche, per non dire secessionistiche, dell'epoca: in breve, una risposta frettolosa e sbagliata a intenti puramente propagandistici che non hanno più trovato cittadinanza nelle stesse formazioni politiche che li avevano promossi.
Constatati i danni e i costi economici e sociali del Titolo V si è cominciata ad invocarne una sostanziale modifica.
Il Governo Renzi avviò così nel 2014 le procedure per alcune modifiche costituzionali che culminarono con l’approvazione definitiva da parte del Parlamento il 12 aprile 2016, testo sottoposto a referendum il 4 dicembre 2016. Tale provvedimento prevedeva oltre al superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL anche una revisione del Titolo V della Costituzione come modificato nel 2001.
Le cronache all’epoca del referendum del 2016 riportano che i conflitti di attribuzione fra Stato, Regioni e Province autonome dal 2002 al 2015 avevano prodotto 1586 pronunciamenti da parte della Corte Costituzionale che rappresentavano ben il 43,8% della intera produzione dell’Alta Corte. Nei seguenti quattro anni (2016-2019) la Corte Costituzionale si è pronunciata in tale materia per altre 37 volte.
Ma al di là dei dati statistici – che comunque hanno la loro importanza – i danni procurati dalla riforma del 2001 sono stati enormi: incertezza delle competenze fra i livelli istituzionali, ritardi inverosimili nell’entrata in vigore di norme e leggi, interruzioni nell’erogazione di importanti servizi per non parlare della conclusione di grandi opere infrastrutturali oltre ai costi stessi dell’avvio e conclusione di questi conflitti di attribuzione.
La vittoria del NO al referendum del 4 dicembre 2016 ha così mantenuto in vita il Titolo V del 2001 ed oggi ne verifichiamo ancora una volta tutti i limiti con lo spettacolo cui abbiamo assistito nel periodo di lockdown con l’inadeguatezza dei vertici regionali e talvolta nazionali a combattere l’emergenza coronavirus che con altri assetti costituzionali – ma anche altri vertici regionali – avrebbero comportato sicuramente meno danni, meno vittime e meno costi per l’intero sistema.
Da ultimo, proprio in questi giorni, assistiamo ad un rimpallo di responsabilità tra Governo e Regione Lombardia sulla chiusura di alcune zone nella bergamasca.
Un triste spettacolo da parte anche di quanti hanno scaricato su altri soggetti regionali e non le responsabilità di quanto avvenuto durante l’emergenza coronavirus nella Regione che dirigono e casomai rivendicano addirittura una “autonomia rafforzata”, salvo rifiutarne le responsabilità che ne derivano
Si parla tanto e da tanto tempo di riformare la burocrazia e di avviare una profonda semplificazione legislativa, proponimenti di assoluto valore che però, insieme alla ricorrente battaglia contro l’evasione fiscale, si configurano sempre più nella fattispecie del “vaste programme” di De Gaulle.
Invece di pensare a riforme tanto epocali quanto velleitarie, invece di mortificare la democrazia rappresentativa pensando a pericolose derive di democrazia diretta con il taglio dei parlamentari brandendo strumentalmente il vessillo della riduzione dei costi della politica, basterebbe rimettere mano all’attuale Titolo V della Costituzione ed alla ripartizione dei poteri fra Stato, Regioni e Province autonome.
Ne guadagnerebbe sensibilmente la chiarezza delle responsabilità dei diversi livelli istituzionali; l’efficienza e l’efficacia dei provvedimenti; un ingente risparmio di costi diretti e indiretti, riducendo altresì drasticamente, se non cancellando, l’impegno della stessa Corte Costituzionale in materia di conflitti di attribuzione.
Ne guadagnerebbe anche e soprattutto l’immagine di questo nostro Paese, costretto ad assistere ad indegne sceneggiate, rimpalli di responsabilità e sprechi ingenti di risorse e con un sistema PA tanto farraginoso quanto sempre più lontano dalle esigenze reali dei cittadini.
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