Nell’intervista di Tonia Mastrobuoni, oggi su Repubblica, Fabio Panetta, membro del board della Bce afferma che l’accordo sul Recovery Fund “è una svolta, un passo storico verso l’integrazione europea”. Continuano, giustamente, ad essere positive le riflessioni sul negoziato della scorsa settimana a Bruxelles, per le risposte finanziarie date alla grave crisi in corso e perché sono state infine arginate le mire decisionali dei cosiddetti “Paesi frugali” sui modi e sui tempi di erogazione delle risorse a singoli Paesi.
Tuttavia, troppo poco si è detto e scritto in questi giorni su un documento del Parlamento europeo che potrebbe pesare sulle prossime tappe del Recovery Fund e riaprire una riflessione sul futuro dell’integrazione europea.
Si tratta della “Risoluzione del Parlamento europeo del 23 luglio 2020 sulle conclusioni della riunione straordinaria del Consiglio europeo del 17-21 luglio 2020”, con il quale gli eurodeputati, pur definendo “storico” l’accordo sul Fondo di 750 miliardi per la ripesa, avanzano pesanti critiche ai tagli al Quadro finanziario pluriennale (Qfp), il bilancio a lungo termine dell’Unione europea. Il pacchetto complessivo di 1.824 miliardi approvato la scorsa settimana a Bruxelles prevede, infatti, riduzioni consistenti al piano settennale per il 2021-2027, già approvato nel 2018 e integrato lo scorso maggio con il Next generation Eu di 750 miliardi proposto dalla Commissione europea per fronteggiare la crisi generata dalla pandemia. L’esito del Consiglio europeo, come è noto, ha confermato i 750 miliardi per la ripresa ma ha penalizzato il Quadro finanziario pluriennale per un totale di circa 50 miliardi di investimenti. Inaccettabile, secondo gli europarlamentari che ora rivendicano il diritto del Parlamento, in quanto autorità di bilancio, ad esercitare il diritto di veto. Un diritto finora mai utilizzato dal Parlamento europeo che dal 2007, con il Trattato di Lisbona, ha competenza sui Quadri finanziari pluriennali insieme al Consiglio dell’Ue, organo che riunisce i rappresentanti dei governi nazionali.
Ma nella sessione straordinaria del 23 luglio tutti i gruppi parlamentari hanno fatto quadrato e sostenuto che i quaranta programmi Ue finanziati dal Quadro pluriennale, “devono avere il consenso del Parlamento, come colegislatore”, sottolineando inoltre che un accordo dev’essere raggiunto “al più tardi entro fine ottobre”, per l’avvio dei programmi dal primo gennaio 2021. “Noi - ha detto Manfred Weber, presidente del gruppo Ppe - non cediamo, vogliamo dire la nostra su come il denaro viene usato. Non c’è denaro se non c’è il rispetto dei meccanismi europei. Vogliamo migliorare l’accordo e siamo pronti ad agire in tal senso”. «Vi offriamo l’estate per ripensare alle vostre priorità», ha detto ai governi nazionali il capogruppo dei Verdi, Bas Eickhout. E in quella stessa occasione il presidente Sassoli ha confermato: “La proposta è sul tavolo, ma noi vogliamo migliorarla concentrandoci nel dare risposte a quelli che per noi sono dei tagli ingiustificabili. I Trattati Ue prevedono che l’Europarlamento si pronunci sul pacchetto approvato. Il voto finale è previsto nel giro di un paio di mesi”.
A rischio, secondo il Parlamento europeo, sarebbe l’interesse generale dell’Ue, perché i tagli al Quadro finanziario pluriennale “contrastano con gli obiettivi comuni”: si tratta, come puntualmente scritto nella Risoluzione, di tagli ai programmi di sanità e di ricerca che rappresentano “un pericolo nel contesto di una pandemia globale”; di tagli all’istruzione, alla trasformazione digitale e all’innovazione che “pregiudicano il futuro della prossima generazione di europei; di riduzioni previste dei programmi che sostengono la transizione delle regioni dipendenti dal carbonio”, dunque “in contrasto con l'agenda del Green Deal dell'UE”; infine di tagli in materia di asilo, migrazione e gestione delle frontiere che metterebbero “a rischio la posizione dell’UE in un mondo sempre più instabile e incerto”. E infatti, nei numeri, le previsioni riguardano fra l’altro una riduzione da 25 a 5 miliardi per sette anni del programma di ricerca Horizon; la cancellazione dell’iniziativa della Commissione Eu4Health per 9,4 miliardi di euro; la soppressione del fondo per aiutare la solvibilità delle piccole e medie imprese.
“Non possiamo tagliare le risorse del bilancio per la ricerca, per i giovani, per Erasmus e non possiamo tagliare neanche i fondi per la migrazione e l’asilo”, ha aggiunto Sassoli sollecitando l’aggiustamento del Qfp attraverso prossimi negoziati.
La Risoluzione del Parlamento europeo toglie, quindi, il velo a una querelle di non poco conto fra le istituzioni europee. Nella quale rientrano le rivendicazioni di ruolo dell’Europarlamento per le materie in cui è chiamato alla codecisione e soprattutto l’irrisolta disputa fra l’ideale federalista di un’Unione europea governata da organismi comunitari sovranazionali, Parlamento e Commissione in primis, e la costruzione di un assetto unitario basato prevalentemente sulle decisioni dei Consigli dei capi di Stato e di governo.
Nel corso del vertice di Bruxelles sul Recovery Fund, ha detto Sassoli al Corriere della Sera, “c’è stato il tentativo di rafforzare la posizione intergovernativa, perché alcune soluzioni proposte dai Paesi del Nord sulle competenze della Commissione e del Parlamento avrebbero tagliato fuori le istituzioni comunitarie”. Tentativo poi superato dagli strumenti messi in campo dal Next generation EU per la condivisione del debito da parte degli Stati nazionali.
Ursula von der Leyen, con l’evidente intenzione di smussare la tensione degli europarlamentari, ha detto: “Questo quadro finanziario pluriennale è una pillola amara da mandare giù e so che su questo il Parlamento è d’accordo con me, però dobbiamo considerare da dove siamo partiti, abbiamo colmato la Brexit”.
Ma la linea decisamente critica della Risoluzione non sembra preannunciare facili rese da parte del Parlamento europeo, che denuncia inoltre l’assenza di vincoli che obblighino i beneficiari del Recovery fund a rispettare lo stato di diritto. Un cedimento grave ai Paesi dell’Est, soprattutto all’Ungheria e alla Polonia. E un ulteriore smacco per il Parlamento e la Commissione che da tempo hanno avviato la procedura dell’articolo 7 del Trattato sull'Unione europea, dove è prevista la sospensione dei diritti di adesione all'Unione europea ad un Paese membro che violi i principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell’uomo alla base dell’Unione europea.
Insomma, la conclusione del Consiglio europeo, seppure positiva, ha messo da parte le indicazioni dell’Assemblea parlamentare che questo documento ora rivendica con forza. Va, infatti, detto che il Parlamento europeo è la sede naturale, perché espressione del voto democratico dei cittadini, dove oggi può e deve riprendere quota la dialettica fra le forze politiche europee. Per battaglie future non più solo sul fronte di grandi e importanti piani per risanare le economie disastrate degli Stati, ma per fare dell’Unione europea una comunità definitivamente integrata e di peso su scala mondiale.
Silvia Di Bartolomei
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